Per una lettura macroeconomica della mostra di Mishka Henner
Testo a cura di Giuseppe Berta (Università Bocconi)
La spazialità del mondo che colgono le immagini elaborate da Mishka Henner si presenta, a prima vista, completamente artefatta: la presenza umana ha creato un paesaggio ex novo, in cui il territorio e le grandezze economiche che lo strutturano sono intimamente fuse, ma allo stesso tempo la mano e l’intenzione dell’uomo, che ha plasmato con la sua volontà quegli assetti, si sono fatte invisibili.
Le mappe aeree di Mishka Henner fissano una realtà dai lineamenti astratti perché tale essa è divenuta per effetto dell’azione umana, che ha mescolato in un impasto unitario la terra con le ragioni di un’economia capace di rimodellare completamente l’ambiente fino a disegnare un paesaggio assolutamente inedito, in cui le funzioni produttive si compenetrano col territorio, indissolubilmente.
È questo il mondo che abbiamo costruito, sembra dirci Mishka Henner, con la potenza di immagini che a prima vista appaiono fredde, irriconducibili alla percezione che ne hanno i nostri sensi. Dalle sue mappe esce un messaggio radicale, che ci fa comprendere – con la stessa forza del suo raggelato silenzio – fino a che punto l’ambiente sia uscito trasformato dall’urto con le grandi forze economiche, capaci di uniformarlo e piegarlo alla propria logica.
Le immense pale eoliche che si stagliano sulle grandi pianure degli Stati Uniti, le pipe-lines che assicurano la circolazione del petrolio proprio come un sistema arterioso destinato ad animare l’economia del paese, le concentrazioni infinite del bestiame che, con la produzione incessante e sempre più rapida di carne bovina, alimentano molti milioni di persone: sono questi altrettanti capitoli di un discorso che svela la crescente, persino totale, subordinazione della natura a uno sconfinato progetto produttivo. Una sorta di volontà di dominio faustiano sulla natura e l’ambiente che li ricrea alla radice, secondo un’agenda dettata dall’esigenza di una continua generazione di energia, sia essa quella delle pale eoliche o del petrolio o quella degli sterminati allevamenti di una civiltà carnivora, che ha bisogno di alimentarsi sempre di più.
L’aver tolto l’uomo dal paesaggio, fotografato a una scala troppo elevata perché si possa registrare la sua presenza fisica, ha la conseguenza di porre in risalto quanto profonda sia l’orma che vi ha impresso. Mishka Henner non ha dubbi sul fatto che si sia trattato di un’opera prevaricatrice, che ha forzato la natura oltre tutti i suoi limiti, al punto di renderla irriconoscibile ai nostri stessi occhi. Il territorio ha preso la forma delle funzioni economiche che vi sono ospitate, senza possedere più un’identità autonoma rispetto ad esse. La terra appare così come un deposito e un luogo di stoccaggio di energia, in tutte le proprie manifestazioni: l’energia che è necessaria al mondo per funzionare secondo le sue regole attuali.
Naturalmente, la domanda che queste immagini suggeriscono è se sia possibile spingere ancora più in là questo processo, riducendo l’ambiente a una mera commodity, al pari di quelle che lo delimitano coi loro circuiti produttivi e i loro sistemi di fornitura.
La risposta non può che essere negativa. Mishka Henner sembra dirci che se cristallizzeremo definitivamente la subordinazione della natura agli imperativi dell’economia, o almeno di un’economia volta esclusivamente ad assolutizzare i suoi livelli quantitativi, l’esito sarà la scomparsa dell’umanità, già prefigurata in queste fotografie dove essa non compare mai. Le sue immagini ci segnalano una situazione ormai tesa verso un punto di non ritorno, un limite che sta per essere raggiunto in maniera inconsapevole, proprio come il progetto di Faust che finisce col convertirsi nella sua condanna definitiva.