Per una lettura macroeconomica della mostra di Francesco Jodice
Testo a cura di Giuseppe Berta (Università Bocconi)
Il West che ripropongono le immagini di Francesco Jodice non è quello che ci ha consegnato la tradizione americana: non è il mito della frontiera come proiezione di un destino collettivo tenace e volitivo in cui si tempra il carattere di una nazione alla scoperta della propria missione. È invece un West scabro e senza tempo, ricondotto a un’essenzialità quasi drammatica, che riconduce a luoghi spesso aspri, desertificati. Il West per Francesco Jodice è in primo luogo una sequenza di luoghi che appartengono al deserto, ritratti in una luce chiara che li riduce a una dimensione. Luoghi in cui la vita si presenta assente o sospesa.
In questo senso, il suo West ricorda non la frontiera in movimento delle grandi pianure verdi, ma le distese di polvere bianca e di pietra evocati nei romanzi di Cormac McCarthy, dove una natura distante e passiva assiste immota e inalterabile agli sforzi degli uomini. È una natura che domina lo spazio e piega a sé anche gli elementi che penetrano nel suo territorio, come per vincerne le intenzioni originarie. Avviene così per l’aereo con la fusoliera affondata nella sabbia, per il profilo della bomba che si staglia contro il vuoto, per i camper che sembrano aver interrotto la loro marcia con una sosta ai margini di niente, per lo scheletro di legno del saloon che si spalanca sul deserto. Sono tutte raffigurazioni che rimandano all’assenza di tempo, dove anche gli oggetti in cui è rappreso il passato umano finiscono anch’essi col perdere ogni caratterizzazione temporale. La stessa silhouette di Marilyn finisce per smarrire ogni determinazione per situarsi in una sorta di infinito americano, dove nessuna periodizzazione è più possibile.
La storia è come cancellata nelle guglie di roccia della Monument Valley. Essa è esistita infinitamente prima che vi si imprimesse un’orma animale o umana, prima che il cinema di John Ford facesse di essa un simbolo dell’epopea americana, prima che la nazione Navajo ne presidiasse i confini per i turisti. È questo ciò che ci ricorda Francesco Jodice, per sottolineare come il mito del West, che l’ha resa nota al mondo, costituisca comunque soltanto un momento all’interno di una condizione invariabile, che prevarrà anche quando della storia che ha rappresentato non ci saranno più le tracce. Se togliessimo da uno sperone di roccia il contorno dell’uomo a cavallo, la Monument Valley tornerebbe a essere quella di quando non aveva nome.
Tuttavia, interrotta lungo una pista desertica, dove un camper può essere fermo per una sosta momentanea o pronto a riprendere dopo poco il viaggio, il West ha un suo tragitto che prevede un punto finale, là dove il deserto si interrompe lungo una linea delimitata dai cespugli per mettere capo a una piana e poi al mare. Sono le palme della California a costituire il limite del West e dell’America. Il deserto finisce così per segnare il termine del viaggio dell’America, dove essa incontra non più le forze astratte custodite da una natura indomabile, ma i caratteri e gli indicatori della ricchezza che hanno plasmato la sua storia. La pepita della Gold Rush del 1849 vale in questo caso come lo schermo del computer che registra le variazioni dei valori di Borsa: costituiscono entrambi i segni del compimento della traversata della frontiera, conclusasi con la forma tipica del successo americano, l’acquisizione della ricchezza. Il risultato consiste però nella smaterializzazione di quest’ultima, che sopravvive come indice astratto.
Nella lettura del West offerta da Francesco Jodice è possibile rinvenire una varietà di suggestioni per interpretare una realtà americana che si presta a essere continuamente rivisitata, magari mescolando i suoi riferimenti più celebri (Marilyn, la bomba, l’astronauta che appare tramutato in un devise tecnologico nello spazio) e ponendoli a confronto con una cornice estrema come quella del deserto. Sarebbe troppo banale parlare di una consunzione dell’american dream a contatto con un ambiente disseccato e illuminato dalla luce potente e fredda di una landa desertica. Piuttosto verrebbe da dire che è sotto una luce così duramente impietosa, assoluta, che spicca l’atemporalità di un’America da un lato indotta a ritornare perennemente sui simboli del suo passato e, dall’atro, a tentare ogni volta di ricavarne un significato diverso.
Guardando le immagini elaborate da Francesco Jodice mi è venuta alla mente l’ultima, la più lunga ballata di Bob Dylan, Murder Most Foul, che molti di noi probabilmente hanno avuto modo di ascoltare nel recente tempo di sospensione in cui siamo stati calati. Man mano che il suo canto procede, Bod Bylan pare voler rinunciare alle proprie parole per allineare, uno dopo l’altro, nomi e rimandi che compongono, quasi di per se stessi, un meditazione del passato, affidata a una sequenza di evocazioni che di fatto ricrea l’universo americano custodito nella memoria. Così, il gesto violento che ha spento la vita di John F. Kennedy diventa l’occasione per svolgere il filo dei ricordi e attribuire ad esso un senso, che è anche la perdita di un’America perduta e costantemente ricreata nell’immaginazione.
Le opere di Francesco Jodice ci mettono davanti, con maggiore freddezza emotiva, a un procedimento analogo, invitandoci a ripensare l’America in un momento in cui essa deve ripensare se stessa. Le sue figure ci ricordano come l’identità americana non possa prescindere dal West, da un sogno continuamente rivissuto che si è però cristallizzato in un deserto, non soltanto quello che ha dovuto attraversare, ma di cui è rimasto anche prigioniero.
Può darsi che l’operazione che l’America dovrà compiere per ritrovare la via dello sviluppo passi ancora attraverso la riscoperta e l’uso delle simbologie della frontiera: il suo linguaggio pubblico ne ha bisogno per far funzionare la grammatica delle rappresentazioni. Non di meno, la catena narrativa in cui esso si struttura suggerirà forse nuove attribuzioni di significato meno ingenue che nel passato. Soprattutto, non è detto che un simile passaggio non si effettui senza il contributo critico di punti di vista e modalità di osservazione tipici di un viaggiatore europeo con l’occhio disincantato di Francesco Jodice.