Per una lettura macroeconomica della mostra di Walter Niedermayr
Testo a cura di Giuseppe Berta (Università Bocconi)
L’Iran costituisce oggi una delle realtà che sfidano di più la comprensione dell’Occidente.
Ciò a causa della sua natura intrinsecamente contraddittoria, agli occhi degli occidentali: per il divorzio tra la sua storia passata e il suo presente (il tema al cuore delle immagini di Walter Niedermayr), due dimensioni apparentemente inconciliabili. Perché si mostra a noi in un’aura di modernità analoga alla nostra, ma schermata dalla djellaba islamica. Per un’economia che trova la propria ragion d’essere nel commercio internazionale, ma costretta nei vincoli di una nazione militarista e nucleare. Nel corso degli ultimi trent’anni, la capacità di analisi e di visione dell’Occidente è stata più volte smentita dal confronto coll’universo iraniano. In un certo senso, non abbiamo superato lo stato di sconcerto e di frustrazione che aveva assalito l’Occidente di fronte alla rivoluzione della fine degli anni Settanta, quando le categorie che avevamo applicato a quell’evento erano state contraddette una dopo l’altra, come la speranza di ricostituire un rapporto con l’Iran su un asse di continuità con l’approccio occidentale. Né quell’esperienza ha insegnato molto nell’atteggiamento davanti al mondo islamico e ai suoi rivolgimenti, come hanno posto in evidenza più di recente le “primavere arabe”.
Ecco perché forse conviene sospendere per un tratto i nostri criteri di giudizio e fermarci a guardare la rappresentazione cui ci pone davanti Niedermayr. Essa è centrata sulla dicotomia Persia/Iran, due spazi che non riescono a coesistere nella nostra mente, al punto che l’occhio ha difficoltà a percepirli assieme, come invece ci invita a fare Niedermayr. Le sue immagini ci esortano a compiere un’operazione che di primo acchito ci sembra paradossale: vedere assieme la Persia – cioè una delle più grandi culture della storia – nella cornice di un presente che con quel passato non denuncia di primo acchito alcun legame. Per noi, infatti, sono due realtà inconciliabili: la Persia che ci consegna la tradizione storica è, insieme, una culla della civiltà e un luogo emblematico dell’Oriente. Essa è, in gran parte, l’Oriente che è entrato nella coscienza del mondo. Dall’altro lato, Niedermayr ci mette dinanzi al paradosso per cui quella reminiscenza storica può oggi situarsi nella cornice di un paese che ha fatto proprie anche le forme estreme della modernità, pur mediate dalla ricezione all’interno del canone islamico. L’Iran attuale è una vasta nazione a base urbana (il 70 per cento della sua popolazione risiede nelle città, che attraggono continuamente nuova gente); è una potenza energetica e nucleare; praticamente tutti i suoi abitanti posseggono un cellulare. Ed è naturalmente una società molto più giovane delle nostre, percorsa da numerosi circuiti di integrazione e di partecipazione, come rivela la sua vita urbana, densa e complicata com’è ovunque la vita urbana del Ventunesimo secolo. Lo sguardo di Niedermayr non arretra né indugia dinanzi ai contrasti. Registra gli ossimori in apparenza stridenti dell’Iran attuale con la chiarezza assoluta che può dare loro la bianca luce orientale. Il merito delle immagini che compone è di obbligarci a prendere atto che quella che osserviamo è una realtà intimamente contraddittoria eppure pulsante di vita, in cui è come se il presente aggiungesse sempre nuovi strati alla storia, senza negarla, ma anche senza preoccuparsi delle disarmonie che questa operazione suscita. Perché l’Iran è questo: la bellezza dei monumenti e delle vestigia del passato incorporata quasi a forza in un’organizzazione di massa, popolosa e brulicante di persone e di esperienze di vita eterogenee, senza curarsi di ricercare alcuna compatibilità formale.
L’Iran è una somma di condizioni tra di loro assolutamente eterogenee, una convivenza di stili, forme e anche nude forme di esistenza, una commistione di situazioni che assolvono a una funzionalità essenziale, quella che assicura la continuità del quotidiano.
È probabile che allo smarrimento della coscienza occidentale dinanzi all’Iran concorra anche il fenomeno, sempre più diffuso nel mondo contemporaneo, del leapfrogging, cioè dell’adozione di strumenti e tecnologie che vengono adoperate senza che si sia necessariamente passati dagli stadi che li hanno preceduti. La diffusione dei cellulari è ormai possibile ovunque grazie ai sistemi satellitari, che hanno permesso di saltare alcuni passaggi infrastrutturali. Qualcosa di analogo si può dire dei grattacieli e degli edifici che recano l’impronta evidente dell’urbanesimo occidentale, soprattutto americano, pur in situazioni dove vigono i codici della comunicazione islamica. Ma le popolazioni che vivono in società come quella iraniana sono troppo assorbite dalle urgenze del presente per poter soltanto pensare di essere calate in un groviglio contraddizioni. Niedermayr ci mostra una vita che erompe attraverso tutti i pori dell’organizzazione sociale ed è intenta a sviluppare peculiari modi di adattamento all’interno di un’evoluzione incessante, che fa appello a ogni forza, a ogni risorsa disponibile. In Iran si è troppo impegnati a vivere per soffermarsi sulle incoerenze del progresso. Per di più, la dilatazione subita dal tempo presente è tale da far scomparire il senso della diacronia, piegando ogni cosa all’immediatezza. Ecco perché questa rappresentazione dell’Iran dovrebbe indurci a capire che non possiamo entrare in contatto con una realtà così polimorfa ed eterogenea pretendendo che una dimensione possa assumere tutte le altre. Non possiamo cioè considerare l’Iran nella sfera esclusiva delle relazioni di mercato, ma nemmeno in quella politico-militare, come se esse subordinassero necessariamente le altre. Si tratta invece di aspetti che coesistono e con i quali occorre sapersi confrontare in maniera specifica, senza pretendere di ricondurli a una soluzione unitaria. Non è perciò impostando le relazioni sotto un unico registro che possiamo ritenere di venire a capo di contrasti insiti in una realtà profonda. E non è nemmeno che possiamo credere di poter assestare ciò che il frutto di una sedimentazione storica complessa, da accettare anzitutto nella sua consistenza effettiva. Niedermayr ci invita di fatto a tenere ben aperti gli occhi su un universo così lontano dal nostro, eppure così ricco di evocazioni e di allusioni anche per il nostro linguaggio. Ci induce a non arretrare dinanzi alle contraddizioni del reale e a intendere che in quella varietà di forme e di esperienze, in quella ricerca così intensa di un modo di vita capace di reggere il rapporto con la modernità, vi sono per noi opportunità di relazioni e di dialogo che non devono andare perse. Soltanto se saremo in grado di afferrarle potremo tentare di costruire un terreno comune di confronto nel futuro.