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• Osservatorio Global Bonds •
Durante il mese di marzo tutte le più importanti Autorità Monetarie mondiali hanno decisamente acuito l’atteggiamento espansivo lasciato presagire nel bimestre precedente. La Fed, in seguito alla riunione del Comitato Esecutivo (FOMC) del 19/ 20 marzo, infatti, ha lasciato – come ampiamente atteso – inalterato il tasso di riferimento all’intervallo 2.25% – 2.50%, ma anche reso noto di non prevederne alcuna modifica in senso restrittivo nel corso di tutto il 2019. Si tratta di una netta inversione di tendenza rispetto a dicembre, quando Constitution Avenue ipotizzava due rialzi del costo del denaro nell’anno attualmente in corso. Il Governatore Jerome Powell, inoltre, ha annunciato che il programma di riduzione del bilancio della Banca Centrale – che consta oggi di 50 miliardi di dollari al mese – verrà gradualmente ridimensionato e terminerà a fine settembre ovvero due anni dopo il proprio inizio. Anche in questo caso la decisione rappresenta un cambiamento evidente rispetto a fine 2018 quando il medesimo Powell si era detto convinto tale processo di alleggerimento del portafoglio di titoli di Stato potesse proseguire, almeno nel medio termine.
L’evidente mutamento di tono da parte della Federal Reserve deriva dalle attuali, tiepide, dinamiche dell’inflazione – che si conserva prossima al target fissato al 2% – dai rischi – principalmente di natura esogena – potenzialmente in grado di rallentare la crescita economica degli Stati Uniti e dal brusco ridimensionamento dell’appetito per il rischio che ha caratterizzato i mercati finanziari nella parte finale del 2018. Sull’altra sponda dell’Atlantico, il 7 marzo scorso anche la BCE – in virtù del marcato e perdurante rallentamento economico che contraddistingue l’Europa dalla seconda metà dell’anno scorso – si è anche essa espressa in termini molto accomodanti. Francoforte, infatti, ha spostato dall’autunno 2019 a inizio 2020 la data minima prevista per un primo rialzo del tasso di riferimento, oggi pari a zero, e di quello sui depositi bancari presso l’Eurotower, attualmente fissato a -0.40%, e annunciato una nuova serie di aste TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operations) volte a sostenere la concessione del credito da parte delle banche europee.
Il Governatore Draghi, inoltre, durante una conferenza a fine marzo non ha escluso la possibilità che la BCE agisca per limitare gli effetti nefasti dell’attuale livello del costo del denaro sui bilanci degli istituti di credito continentali, senza tuttavia entrare nel merito delle eventuali misure in tal senso. Durante i lavori del Parlamento cinese, inoltre, il Premier Li Kequiang ha per la prima volta apertamente paventato la possibilità che la Banca Centrale locale possa abbassare il tasso di riferimento – fermo al 4.35% da oltre tre anni – per fornire stimolo all’economia, e il Governatore della Banca del Giappone Kuroda ha confermato che l’attuale politica ultra espansiva verrà mantenuta in essere almeno nel medio termine. All’atteggiamento, univocamente espansivo, delle maggiori Autorità Monetarie sopra descritto, hanno immediatamente aderito quasi tutte le controparti, sia industrializzate sia emergenti. Le Banche Centrali di Australia, Canada, Nuova Zelanda, Brasile, Indonesia, India, Sud Africa e Russia, infatti, non prevedono alcun provvedimento restrittivo in tempi brevi e alcune di esse paiono intenzionate ad abbassare il costo del denaro anche al fine di scongiurare un eccessivo apprezzamento delle rispettive divise sul mercato dei cambi in grado di frenarne le esportazioni. In tutti i casi, così come per la Fed, le motivazioni delle dichiarazioni di intenti sono da ricercarsi nelle limitate pressioni inflattive e al velato ma piuttosto diffuso timore di un raffreddamento del ritmo di espansione dell’economia globale.
La reazione del mercato obbligazionario alle decisioni sopra citate è stata consistente. A marzo gli yield dei Treasury sono scesi di 25/ 30 punti base lungo tutta la curva e il decennale di Washington rende oggi poco più del 2.40% – minimo da fine 2017. In marcato calo anche i rendimenti dei Titoli di Stato europei – sia “core” sia periferici, Italia compresa – canadesi, australiani, giapponesi e coreani lungo tutto lo spettro delle scadenze. Emblematico è il fatto che a fine marzo il Tesoro tedesco abbia emesso Bund decennali a rendimento negativo (5 punti base) per la prima volta dall’autunno del 2016. L’ammontare complessivo di obbligazioni che presentano yield negativo, in tal senso, eccede oggi quota 10.000 miliardi di dollari – massimo da settembre 2017 – ovvero il 19% circa dell’universo investment grade planetario. Nelle ultime settimane è, inoltre, diminuito in misura variabile – dai 5/ 10 punti base di Russia, Brasile, Cina e Sud Africa ai 25/ 30 punti base di Messico, India e Indonesia – anche il costo del servizio al debito sovrano di buona parte dei Paesi Emergenti con la sola significativa eccezione della Turchia caratterizzata da tensioni politiche sul fronte interno e internazionale. Si sono, infine, moderatamente compressi gli spread creditizi dei bond investment grade in Euro e Dollari e degli high yield denominati in valuta europea; in lieve incremento gli high yield nordamericani il cui differenziale di rendimento rispetto ai Treasury sono tuttavia complessivamente diminuiti di 125 punti base nel primo trimestre 2019. Il maggior rischio per l’asset class obbligazionaria nel suo complesso attiene a una eventuale riaccelerazione dell’attività economica e dell’inflazione – negli USA in particolare, soprattutto se accompagnata da un ulteriore ampliamento del deficit fiscale di Washington – potenzialmente in grado di modificare nuovamente la “forward guidance” della Fed in senso restrittivo o di far percepire la Banca Centrale nordamericana come “dietro la curva” e innescare quindi un brusco innalzamento dei rendimenti.
Tale scenario – che non pare oggi imminente in considerazione dei più recenti dati macroeconomici americani, cinesi ed europei – si ripercuoterebbe negativamente sui prezzi dei titoli sovrani e corporate su scala planetaria e in particolare sul debito emergente. Se, viceversa, l’attuale quadro – contraddistinto da crescita e variazione dei prezzi moderate in gran parte del globo – permarrà immutato o se si verificasse un più marcato rallentamento, gli yield si manterranno sugli attuali livelli o scenderanno ulteriormente, sebbene lo spazio appaia in molti casi limitato. L’esiguità dei rendimenti oggi offerti dai Governativi Europei – sui quali incombono in molti casi, Italia su tutti, rischi di natura politica – e di buona parte dei Corporate – i cui bilanci potrebbero risentire di un ridimensionamento della crescita – rende infatti tali aree del mercato scarsamente interessanti. Migliori – almeno nell’immediato futuro – appaiono le prospettive dei Titoli di Stato nordamericani e soprattutto emergenti (sia in “hard currency” sia in divisa locale), caratterizzati da rendimenti ancora piuttosto elevati e tassi di riferimento positivi in termini reali e passibili quindi di eventuali tagli.