Per una lettura macroeconomica della mostra di Lorenzo Vitturi
Testo a cura di Giuseppe Berta (Università Bocconi)
Che cos’è un mercato? Da sempre è un incrocio permanente di culture, identità, modi di vita, oltre che di beni. I mercati sono esistiti all’interno di ogni società e hanno disseminato intorno a loro impulsi vitali, alimentando un’incessante dinamica di relazioni fra le persone. Dunque, non devono essere letti soltanto come formazioni economiche, ma anche come luoghi di deposito e di accumulo di sedimentazione antropologica. Tanto più se sono realtà come quelle colte dell’immaginazione artistica e fotografica di Lorenzo Vitturi, tesa a percepire l’estetica del mercato, attraverso forme e colori di oggetti che mutano il loro significato originario per assumerne di nuovi, modellati da un contesto che li ridefinisce e, di fatto, li reinventa.
Il Balogun Market, a Lagos, campo su cui Vitturi esercita la sua osservazione, appare esemplare, da questo punto di vista. Quando la Financial Trust House venne edificata, oltre trent’anni fa, essa rifletteva un’idea statica e formale del processo economico. Lo scambio doveva avvenire entro uno spazio chiuso e delimitato, allo scopo di fissare delle regole stabili. Il nuovo edificio si contrapponeva così alla spontaneità delle relazioni economiche di strada, inclini a individuare autonomamente le loro modalità di funzionamento, lasciando ampio margine alla soggettività delle persone che le animano. Da una parte, dunque, vigeva la rigidità formale della concezione occidentale e moderna del mercato; dall’altra, l’informalità fluida e in divenire di una moltitudine di persone che, attraverso lo scambio, cercavano – e cercano -un’opportunità di vita e di affermazione per se stesse.
Col tempo, inevitabilmente, ha prevalso questa seconda dimensione che si identifica col flusso ininterrotto dei “giochi dello scambio” (come li chiamava il più grande studioso del secolo scorso di tali fenomeni, Fernand Braudel).
La crescita vertiginosa della popolazione della Nigeria, che ha condotto Lagos a diventare una delle maggiori megalopoli mondiali (coi suoi 17 milioni di abitanti), ha finito col travolgere gli spazi chiusi, sospingendo verso la creazione di nuovi circuiti di mercato. Essi hanno pervaso il Balogun Market per farne il luogo in cui trovare una condizione di vita e di lavoro che passa dalla reinvenzione delle relazioni di scambio.
Gli stessi oggetti ereditati dal passato (la tastiera e lo schermo di un computer come i semplici beni di impiego quotidiano) subiscono una trasformazione che cambia il loro significato. I colori e gli accostamenti li differenziano dal loro valore d’uso primitivo per farne qualcosa di completamente diverso, che reca l’impronta del mercante che li espone e li mette in vendita.
È una sorta di rivincita della quotidianità, della vita vissuta principalmente per strada, negli spazi pubblici, rispetto al formalismo dell’economia che si sarebbe voluto imporre alla Financial Trust House. È una concezione del mercato che finisce col subentrare a un’altra. È la visione del mercato come territorio dall’estensione dilatabile all’infinito, di pari passo coll’incremento degli operatori che vi entrano e che vi partecipano.
Anche questo più informale mercato possiede peraltro le proprie regole. Soltanto che si tratta di norme non scritte, interiorizzate piuttosto nei gesti di coloro che vivono di tali giochi dello scambio. Norme che hanno soprattutto un retroterra antropologico: esse prevedono il riconoscimento reciproco, il rapporto diretto e impersonale, la fiducia che si instaura attraverso la costruzione di un’identità.
Balogun Market costituisce perciò, nella sua maniera idiosincratica, una specie di palestra dell’imprenditorialità. Perché i mercanti che lo rendono un’arena economica pulsante sperimentano al suo interno la loro attitudine al processo economico e all’intraprendenza. D’altronde, senza il reticolo di tali capacità e sollecitazioni non si potrebbe compiere un’espansione dell’Africa dell’ampiezza attuale.
Il merito di Lorenzo Vitturi sta anche nel portare alla nostra attenzione di occidentali una sensibilità e un’estetica dell’economia informale con cui dovremo apprendere a misurarci, se vogliamo reggere il confronto con una realtà in crescita tumultuosa come quella africana. Sicuramente essa è destinata a condizionare il nostro domani. Impariamo a guardarla e a conoscerla prima di applicare i nostri canoni.