Citywire
• Osservatorio Global Bonds •
Come ampiamente atteso, la Federal Reserve in seguito alla riunione del comitato esecutivo del 30 aprile/primo maggio ha lasciato inalterato il tasso di riferimento all’intervallo 2,25% – 2,5% e confermato che il programma di riduzione del bilancio della banca centrale – che consta oggi di 35 miliardi di dollari al mese – terminerà a fine settembre, ovvero due anni dopo il proprio inizio.
Il governatore Jerome Powell si è tuttavia detto convinto che il leggero raffreddamento delle pressioni inflattive verificatosi negli ultimi mesi si riveli transitorio e ha pertanto escluso, almeno nel breve/medio termine, l’eventualità di un abbassamento del costo del denaro.
Anche la Bce, riunitasi il 10 aprile scorso, non ha apportato alcuna modifica sostanziale alla propria politica monetaria: il tasso di riferimento e quello sui depositi bancari rimarranno a zero e -0,4% almeno sino al termine del 2019, da settembre verranno lanciate nuove aste di Tltro (Targeted Long term Refinancing Operations) e Draghi ha ribadito che l’Eurotower sta vagliando possibili misure volte a limitare l’effetto nefasto dell’attuale livello del costo del denaro sui bilanci degli istituti di credito continentali.
Nel prossimo futuro, non pare probabile alcuna variazione di rilievo in termini di tasso di riferimento nemmeno da parte delle altre più importanti autorità monetarie. La Banca Centrale Australiana, infatti, ha confermato il proprio all’1,5% – minimo storico – al pari di quella canadese (1,75%). La Banca del Giappone, inoltre, continua a controllare la curva dei governativi locali mantenendo a zero il rendimento dei titoli governativi decennali e la Cina, in considerazione della stabilizzazione della crescita avvenuta a inizio 2019, appare meno propensa ad allentare ulteriormente le condizioni monetarie.
In considerazione del succitato atteggiamento accomodante da parte delle controparti industrializzate, cui si somma l’esiguità delle pressioni inflattive, anche le banche centrali di gran parte dei Paesi emergenti si mantengono neutrali laddove non apertamente espansive, come nel caso dell’India dove il costo del denaro è stato tagliato due volte per complessivi 50 punti base negli ultimi tre mesi. La variazione, in tutti i casi migliore delle attese, del Pil nel primo trimestre negli Stati Uniti, in Europa e in Cina, unitamente alle succitate dichiarazioni dei vertici di Constitution Avenue che allontanano l’eventualità di un taglio del costo del denaro da parte della Fed pur non lasciandone presagire un imminente incremento, si è ripercossa sul mercato obbligazionario innescando una modesta risalita dei rendimenti dei governativi tra fine aprile e i primissimi giorni di maggio, dopo la marcata flessione del bimestre precedente.
La curva dei Treasury è salita, irripidendosi leggermente, di una decina di punti base sulle brevi scadenze e di una quindicina sulle lunghe. Il biennale e il decennale di Washington rendono oggi il 2,35% e il 2,55% rispetto ai 2,26% e 2,41% di fine marzo. Più marcato, specie sulla parte breve, è stato l’aumento del costo del servizio al debito di Italia e Cina. Il Btp a due anni, in tal senso, presenta attualmente un rendimento pari allo 0,5%, ovvero 20 punti base più che a inizio aprile, mentre i titoli di Stato di Pechino a due e dieci anni hanno uno yield pari al 3,1% e al 3,4% rispettivamente ovvero circa 35 punti base oltre il livello di fine primo trimestre.
Sostanzialmente inalterati, invece, gli yield dei bund: il decennale tedesco rende meno dello 0,05%. L’euro si è ulteriormente, lievemente, indebolito nei confronti del dollaro e delle valute emergenti. Decisamente meno volatili sono stati nelle ultime settimane i governativi di numerosi Paesi emergenti – quali Brasile, Russia, Sud Africa – con le significative eccezioni di Venezuela e Turchia, interessate da idiosincrasie di natura locale.
In controtendenza rispetto ai titoli di Stato, gli spread creditizi delle obbligazioni corporate denominate in euro e dollari, sia in ambito investment grade sia, soprattutto, high yield. Hanno seguitato a ridursi, così come accaduto ininterrottamente da inizio anno, anche ad aprile e si attestano su livelli simili a quelli raggiunti lo scorso autunno prima dell’allargamento occorso tra novembre e dicembre.
Nel complesso, pertanto, il rischio di mercato derivante da un eventuale restringimento delle condizioni monetarie ad opera delle banche centrali appare oggi estremamente contenuto e dovrebbe conservarsi tale almeno nel medio termine. Numerosi Paesi, sia avanzati sia emergenti, sono tuttavia interessati da un progressivo quanto marcato deterioramento delle condizioni dei conti pubblici, potenzialmente in grado di ripercuotersi negativamente sui prezzi dei bond governativi. Emblematici in tal senso sono i casi di Washington, Roma e Brasilia.
Negli Stati Uniti il deficit – corroborato dalle minori entrate erariali legate alla riforma tributaria voluta a fine 2017 dall’amministrazione Trump – è destinato ad aumentare per il secondo anno consecutivo raggiungendo il 4,6% del Pil, massimo dal 2012, nell’intero anno in corso.
Decisamente più critica, anche in considerazione delle regole fiscali autoimpostesi dall’Europa, appare la situazione dell’Italia. Il Fondo Monetario Internazionale prevede attualmente che il rapporto deficit/Pil torni a salire dopo quattro anni nell’anno in corso attestandosi al 2,7% prima di sforare ampiamente il 3%, che costituisce il massimo tollerato in sede comunitaria in ciascuno dei cinque successivi esercizi.
Il debito pubblico del nostro Paese – cui le banche italiane sono pesantemente esposte – raggiungerà, inoltre il 133,4% del Pil a fine 2019 anno e l’avanzo di saldo primario scenderà sotto l’1% per la prima volta dopo sette anni.
In Brasile, infine, la dinamica del costo del servizio al debito dipenderà in massima misura dalla riforma del settore pensionistico che il governo Bolsonaro intende implementare e che le opposizioni avversano. In assenza di una profonda revisione del sistema di welfare, infatti, il deficit – che dovrebbe attestarsi al 7,3% nel 2019 – e il debito pubblico – prossimo alla soglia del 90% del Pil – si incrementerebbero ulteriormente risultando evidentemente insostenibili.