Citywire
• Osservatorio Global Bonds •
Il Comitato Esecutivo della Fed – dopo aver come ampiamente previsto aumentato di 25 punti base il tasso di riferimento portandolo all’intervallo 2%/ 2.25% il 26 settembre scorso – ha lasciato invariato il costo del denaro in occasione del meeting del 7 e 8 novembre prossimi.
Numerosi membri votanti del FOMC (Federal Open Market Committee) tuttavia, tra i quali il medesimo Governatore Jerome Powell (in foto sotto), avevano recentemente confermato la volontà di proseguire nella stretta monetaria implementando un nuovo rialzo del suddetto tasso a fine 2018 e tre durante il 2019. Tale intendimento è motivato dalla solidità dell’espansione economica e dell’occupazione, in grado di corroborare la crescita salariale e conseguentemente, l’inflazione.
Anche la BCE – il cui organo decisionale si è riunito il 25 ottobre – non ha segnalato alcuna novità rispetto al percorso di graduale normalizzazione monetaria recentemente programmato nonostante l’evidente rallentamento del ritmo di sviluppo dell’Unione occorso negli ultimi mesi. Draghi, infatti, ha ribadito che il programma di acquisto di titoli sul mercato secondario è destinato a esaurirsi a fine anno e che il tasso di riferimento e quello sui depositi bancari presso BCE – oggi pari a zero e -0.40% – rimarranno inalterati almeno sino all’estate 2019. Il mercato obbligazionario, tuttavia, è – almeno attualmente – influenzato da fattori geopolitici e politici ben più che dalle dichiarazioni di intenti delle autorità monetarie basate a Washington e Francoforte.
Sul piano globale i timori legati alla possibile deflagrazione di una vera e propria guerra commerciale tra Usa e Cina – esacerbati dalle sanzioni sinora comminate da ambo le parti e dalle dichiarazioni di alcuni esponenti di spicco dell’Amministrazione Trump – stanno rallentando l’incremento dei rendimenti dei Treasury e degli altri bond governativi considerati più sicuri. Il rendimento dei titoli di Stato decennali Usa, infatti, dopo aver ecceduto quota 3.25% nei primi giorni di ottobre, sono – sebbene leggermente – diminuiti e si attestano ora sotto il 3.2%; quello dei Bund di pari scadenza è invece diminuito di cinque punti base da fine settembre ed è oggi di poco superiore allo 0.40%, livello che appare eccessivamente contenuto. Alla luce delle buone prospettive economiche di cui godono gli Usa, un eventuale rasserenamento delle relazioni bilaterali sino/ americane potrebbe far nuovamente salire il saggio di interesse richiesto sui Governativi di Washington.
In Europa, inoltre, al paventato scontro commerciale si somma la vertenza italiana. La Commissione Europea, infatti, ha bocciato il draft di legge di bilancio 2019 presentata dall’Esecutivo Conte. Si tratta del primo respingimento di una manovra dall’introduzione del “fiscal compact” nel 2012 e i toni dello scontro tra Commissione Europea e membri del Governo italiano si sono esacerbati. In conseguenza di ciò, a fronte del calo del costo del debito tedesco e degli altri paesi “core”, gli yield dei BTP sono interessati da elevata volatilità. Il decennale del nostro Paese rende attualmente poco meno del 3.4% ovvero una ventina di punti base in più rispetto a fine settembre e ben l’1.30% oltre il livello di inizio anno. L’incremento del servizio al debito si ripercuote pesantemente sui bond delle banche italiane, che detengono circa 400 miliardi di titoli di Stato, i rendimenti dei quali sono aumentati di una trentina di punti base lungo tutta la curva da inizio ottobre. Il suddetto restringimento monetario ad opera della Fed e l’imminente fine delle politiche non convenzionali da parte della Bce iniziano a riflettersi sugli yield dei titoli Corporate.
Sia in ambito euro sia dollaro, da fine settembre gli spread delle obbligazioni societarie “investment grade”, pur mantenendosi contenuti (di poco oltre l’1%), si sono incrementati di una decina di punti base; più marcato invece l’aumento dei rendimenti dei bond “high yield”, balzato nello stesso lasso temporale su entrambe le sponde dell’Atlantico in misura pari allo 0.35%. Anche l’andamento dei Titoli di Stato di alcuni tra i maggiori paesi emergenti – Brasile e Turchia in particolare – nelle ultime settimane è stato condizionato da fattori locali ben più che dal rialzo dei rendimenti dei Treasury avvenuto negli ultimi mesi.
Nel caso sudamericano, infatti, prima i sondaggi e poi il voto che ha premiato Jair Bolsonaro hanno innescato una robusta flessione del costo del debito, diminuito di 110 punti base sulle brevi scadenze e di oltre 160 sulle lunghe. Il mercato prezza, almeno in parte, le promesse elettorali – di matrice liberista e percepite come business friendly – del nuovo presidente che ha annunciato la riforma del sistema pensionistico e un’ondata di privatizzazioni di aziende ora in mano pubblica potenzialmente in grado di contenere il disavanzo dei conti e rilanciare la crescita economica. In Turchia, invece, dove la curva dei Governativi è ancora decisamente invertita, il calo dello yield del biennale ha ecceduto i 300 punti base da fine settembre grazie alla maggior moderazione del Presidente Erdogan (in foto sopra) in tema di politica estera e, internamente, in virtù dell’azione della Banca Centrale volta a contenere l’inflazione e soprattutto arrestare il crollo della divisa nazionale sul mercato dei cambi.